Donald Trump, l’uomo che voleva farsi presidente con i tweet.
Tra le cose per cui i quattro anni di presidenza di Donald Trump verranno ricordati non potrà senz’altro mancare Twitter, per la funzione che il leader repubblicano ha attribuito a questa piattaforma nella sua strategia di comunicazione.
Studiare alcuni dati di interazione di Twitter degli ultimi sei mesi può dunque essere prezioso per avere spunti sul ruolo che è realmente possibile attribuire alla piattaforma e sul suo utilizzo più corretto.
Twitter per Trump: da marchio di fabbrica a media ostile
Nella pervicace intenzione di delegittimare i media tradizionali e diffondere in modo disintermediato messaggi taglienti e spesso corrosivi, Trump ha fatto di Twitter il proprio marchio di fabbrica. Già nel 2015, in un articolo su Linkesta potei osservare quanto fosse già chiara fin dalla nomination la tattica di usare il social del cinguettio in modo polarizzante e aggressivo.
Qui sotto, ad esempio, uno dei colpi bassi più famosi inferti alla rivale di allora, Hillary Clinton.
Da presidente eletto è sempre da lì, con i propri tweet, che ogni giorno ha comunicato non solo atti di governo, ma anche opinioni e intenzioni, di politica interna ed estera.
Sempre senza filtri e, soprattutto, riuscendo quasi sempre a imporre l’agenda mediatica, incentrando l’attenzione su sé stesso.
E quando la mattina del 4 novembre la piattaforma guidata da Jack Dorsey ha iniziato ad applicare ai post del Presidente degli Stati Uniti l’ormai famigerato bollino (“Il contenuto condiviso in questo tweet, tutto o in parte, è controverso e potrebbe essere fuorviante in merito alla modalità di partecipazione alle elezioni o ad altri strumenti di coinvolgimento della cittadinanza”) l’impressione collettiva è stata quella di un contrappasso dantesco. La pena è l’opposto del peccato. L’uso compulsivo del mezzo si ritorce contro l’utente. Da strumento di propaganda, Twitter diventa terreno ostile.
Nella mattina successiva all’election day, il profilo di Trump appare come una sequela di tweet segnalati.
Alcuni tweet segnalati come "fuorvianti" dalla stessa piattaforma Twitter la mattina del 4 novembre 2020
Per quanto resti sempre aperto il tema della trasparenza della policy di Twitter, quella mattina il social media di Jack Dorsey da arma di propaganda è diventato per Trump un grosso problema, rivelandosi di fatto come il mezzo di comunicazione più preparato di tutti, sul piano editoriale oltre che puramente tecnologico, ad agire contro la disinformazione e a esortare gli utenti al fact-checking.
Ma facciamo un passo indietro: c’è un elemento ulteriore di riflessione.
Anche comparando i numeri puri di engagement di Twitter con il rivale Joe Biden nei sei mesi precedenti il voto, emergono soprese interessanti.
Ed è su quelli che ci concentreremo.
La pervasività di Trump, la rilevanza di Biden
Quantità di tweet pubblicati da Joe Biden e Donald Trump nei sei mesi precedenti le elezioni
(Dati Fanpage Karma)
Nel semestre precedente l’election day, Donald Trump twitta come un rullo compressore.
Forte di un account che a inizio maggio contava quasi 80 milioni di follower (il rivale Joe Biden ne aveva “appena” 5,3 milioni), il Presidente degli Stati Uniti sostanzialmente ha “fatto” Trump: postare compulsivamente e nel modo più divisivo, dall’inutilità delle mascherine contro la pandemia ai presunti legami illeciti di Biden con una società energetica ucraina, arrivando a pubblicare una quantità di tweet giornaliera quasi quattro volte più alta di quello del rivale.
Quantità di Retweet e Likes totali ottenuti da Joe Biden e Donald Trump nei sei mesi precedenti le elezioni
(Dati Fanpage Karma)
Naturalmente l’engagement in termini assoluti ha premiato Trump. È il portato naturale di due fattori: la quantità enorme di tweet che ha postato e il contenuto polarizzante, sempre altamente provocatorio, della sua comunicazione. Era prevedibile che succedesse e già alcuni mesi fa, trattando su questo blog le diverse dimensioni delle due pagine Facebook, avevo evidenziato che, sui social media, l’engagement assoluto non poteva essere per Biden un terreno di sfida nei confronti del rivale.
Quello di Trump è il modello della pervasività: l’idea che occupare militarmente gli algoritmi dei social porti alla persuasione. Questa ricerca quasi ossessiva della ripetizione del messaggio ha senz’altro avuto in Matteo Salvini l’epigono più noto.
Funziona?
Quantità di Retweet e Likes per tweet ottenuti da Joe Biden e Donald Trump nei sei mesi precedenti le elezioni
(Dati Fanpage Karma)
In una sfida elettorale caratterizzata da un’alta tensione mediatica pressoché costante a causa dell’emergenza coronavirus e delle violenze legate ai rigurgiti del razzismo, Joe Biden ha scelto la strada della rilevanza: ha usato Twitter per comunicare quando serviva e così facendo ha reso notizie i suoi tweet.
Grazie a una strategia basata sulla rilevanza in opposizione alla pervasività, nei sei mesi precedenti le elezioni un tweet di Biden ha generato, in media, maggiore attenzione rispetto a un tweet di Trump. I suoi RT e Likes per tweet sono più alti di quelli dell’avversario.
Le interazioni ottenute sui social media non significano consenso.
E non si trasformano automaticamente in voti.
Però generano attenzione.
Peraltro, qui parliamo di una piattaforma ampiamente frequentata dai giornalisti, ovvero coloro che sono deputati ad analizzare ed eventualmente rilanciare sui media tradizionali i messaggi dei personaggi pubblici, conferendo ai post una risonanza e un peso in agenda altrimenti non raggiungibile solo via social. Twitter è fondamentale per la convergenza mediatica.
Crescita follower Twitter dei profili Joe Biden e Donald Trump (11/5/2020 – 10/11/2020)
(Dati Fanpage Karma)
Per quanto riguarda la crescita dei follower, le due curve di incremento dei profili avevano proceduto parallelamente nei sei mesi di campagna elettorale. Ovviamente dopo il 3 novembre una delle due curve si impenna inesorabilmente e surclassa l’altra.
Ritorcere la polarizzazione contro l’avversario, senza rifiutarla
Analizzando mese per mese i tweet a più alto engagement dei due sfidanti, la cosa più interessante che emerge è che Biden non ha affatto rifiutato lo schema della polarizzazione imposto da Trump: l’ha ribaltato. Da un lato focalizzando sempre l’attenzione sull’inadeguatezza del presidente uscente, dall’altro trasmettendo messaggi coerenti sulla gestione della pandemia.
Su Twitter Trump copriva invece più temi, riferendosi ai fatti di giornata più che a grandi questioni, e curandosi molto più di soffiare sul fuoco che di rassicurare.
Avere qualcosa da dire è molto più importante che parlare spesso
Parliamo ai social media manager: qual è il significato di questa storia?
Nel fondo c’è una lezione antica, ma attualissima.
Specie nell’ambiente digitale del 2020, caratterizzato da iperconnessione e sovraccarico informativo, la pertinenza del messaggio prevale su una comunicazione invadente.
Anche in un’epoca di divisioni e polarizzazione delle audience, sui social media la rilevanza delle cose da dire è più potente dell'aggressività.
Un messaggio urlato via tweet più volte al giorno non potrà mai essere più efficace di un messaggio semplice e coerente. Alla lunga, parlare solo quando si ha qualcosa da dire è premiante. Persino dal punto di vista dell'engagement.
Marco Borraccino
@borraccinomarco